Catene miofasciali
Un recentissimo articolo (Krause et al. 2016) sulle catene miofasciali ci da l’occasione per ribadire alcuni concetti di come funziona fisiologicamente il corpo umano e su come alla base di alcune patologie vi sia in realtà la disfunzione di questi sistemi, più che il singolo segmento incluso nella sintomatologia.
Di seguito la traduzione dell’abstract.
Lo scopo che questo articolo si propone è quello di fornire una panoramica sistematica degli studi di dissezione anatomica ed in vivo che indagano la trasmissione della tensione lungo le catene miofasciali di Mayer (2014).
Le evidenze che dimostrano l’esistenza delle catene miofasciali sono in crescita, e sono state formulate ipotesi circa la capacità di trasmissione della forza attraverso le catene miofasciali. Tuttavia, vi è ancora una mancanza di prove sul significato funzionale e su come si verifichi la trasmissione della forza. Una indagine sistematica della letteratura è stata condotta utilizzando MEDLINE (Pubmed), ScienceDirect and Google Scholar.
Le catene miofasciali indagate comprendevano la catena superficiale posteriore (SBL – fascia plantare, gastrocnemio, ischiocrurali, erettore spinale) (fig. 1), la catena funzionale posteriore (BFL- gran dorsale, grande gluteo controlaterale, vasto laterale) (fig. 2) e la catena funzionale anteriore (FFL – adduttore lungo, retto addominale controlaterale, grande pettorale) (fig. 3).
Sono stati inclusi studi sottoposti a revisione paritaria di dissezione su cadavere e in vivo che riportavano la trasmissione della tensione intermuscolare tra i costituenti di una catena miofasciale.
Per valutare la qualità metodologica, due esaminatori indipendenti valutavano gli studi con strumenti di valutazione validati (QUACS e PEDro Scale).
La ricerca in letteratura ha portato ad identificare 1022 articoli. Nove studi (di qualità da moderata ad eccellente) sono stati inclusi.
Per quanto riguarda la SBL e la BFL rispettivamente vi è una moderata evidenza circa la trasmissione di forza in tutte e tre le transizioni (sei studi) e una moderata trasmissione di forza in una delle due transizioni (tre studi). Uno studio fornisce un’evidenza moderata circa un leggero ma non significativo passaggio di forza in una transizione nella FFL.
I risultati di questo studio indicano che la tensione può essere trasferita tra alcune strutture vicine esaminate.
La trasmissione della forza attraverso le strutture fasciali potrebbe essere un’importante fattore da considerare nelle sindromi da sovraccarico come nella performance sportiva. In ogni caso modalità differenti nell’applicazione della forza e nei metodi di misurazione costituiscono un ostacolo alla comparazione dei risultati.
È cruciale per l’interpretazione considerare le varianti anatomiche nel grado di continuità e le differenze istologiche delle strutture di collegamento.
Ulteriori studi dovrebbero concentrarsi sull’indagare la funzione in vivo della continuità miofasciale durante un tensionamento isolato attivo o passivo del tessuto.
Riportiamo un passaggio importante della discussione di questo lavoro.
Nonostante alcune pecche metodologiche, recenti studi hanno prodotto prove incoraggianti sulla possibilità che studi in vitro con reperti possono essere trasferiti alle condizioni in vivo. Ad esempio: il ROM della caviglia sembra essere condizionato dalla postura in avanti della testa (Hyong e Kim 2012); l’allungamento degli ischiocrurali del ginocchio tende ad aumentare il ROM del rachide cervicale (Hyong e Kang 2013); l’auto rilasciamento miofasciale della fascia plantare migliora le prestazioni del test sit-and-reach (Grieve et al. 2015); il ROM della caviglia sembra essere condizionato non solo dal ginocchio, ma anche dalla posizione dell’anca (Mitchell et al. 2008). Questi ritrovamenti avallano il concetto di incorporare le intere catene miofasciali nel processo di allenamento della forza e della flessibilità.
Durante la deambulazione, l’insieme del tendine achilleo e della fascia plantare, realizzano una corda come quella di un arco, ed insieme, durante la fase terminale del passo, quando è presente il massimo caricamento, inducono un spinta perso l’alto e in avanti, come se fosse una freccia, del calcagno. Qualcuno ha definito questo meccanismo a catapulta (Ishikawa et al. 2005).
Per noi, in questo testo, è importante prendere in considerazione l’origine di questa corda che avviene a livello del sacro con il legamento sacro-tuberoso, il quale si continua negli ischiocrurali che a loro volta, a livello della gamba, trovano la continuità con il gastrocnemio per raggiungere il calcagno con il tendine d’Achille (fig. 4).
Non a caso in letteratura sono state riscontrate delle correlazioni tra la patologia dell’articolazione sacroiliaca e quella del tendine d’Achille (Voorn 1998).
In letteratura, cosa per noi strana, alcuni lavori (Harty et al. 2005; Labovitz et al. 2011) hanno messo in relazione la perdita di flessibilità degli ischiocrurali con la fascite plantare, confermando il lavoro in catene di questi elementi, ma non con la tA.
Dal nostro punto di vista, una delle cause della tA (tendinopatia Achillea) e della fascite plantare è la riduzione di flessibilità degli ischiocrurali. Queste strutture fasciali lavorando in catena si accollano la tensione elastica utile per la conservazione e il riutilizzo dell’energia elastica (Cavagna et al. 1977; Sawicki et al. 2009).
I muscoli della caviglia e dell’anca, durante la deambulazione, tendono a sostenere prevalentemente un impegno di tipo concentrico (positivo), a differenza del ginocchio che lavora prettamente in eccentrica (negativo) (Sawicki et al. 2009).
I muscoli dell’anca e della caviglia, benché entrambi tendano a sostenere la maggior parte del lavoro della deambulazione, presentano una differente architettura muscolo-tendinea.
La conformazione del tricipite e della maggior parte dei flessori plantari della caviglia, presenta delle relativamente corte fibre muscolari organizzate in modo pennato con un lungo ed elastico tendine che può conservare e restituire un notevole ammontare di energia (Alexander 1988).
L’angolo d’inclinazione delle fibre del gastrocnemio e soleo vanno da 6.5 a 32°; in contrasto, i muscoli primaria flessori ed estensori dell’anca hanno un limitato angolo di inclinazione (da 5 a 7.5°), un’area di sezione larga e relativamente fibre lunghe (Friederich e Brand 1990), ed inoltre, non possiedono tendini lunghi ed elastici.
E’ presente, inoltre, una differenza del tipo di fibra che compone i due distretti muscolari. Il soleo è composto primariamente da fibre lente (slow twitch) e il gastrocnemio equamente diviso tra fibre lente e veloci (fast twitch); in contrasto il tipo di fibra presente nei muscoli dell’anca sono la maggior parte delle fibre veloci (Johnson et al. 1973).
Questa specifica differenza nei muscoli umani dell’anca e della caviglia è stata più generalmente descritta come gradiente prossimo-distale dell’architettura muscolo-tendinea degli animali con zampe (Biewener e Daley 2007). I muscoli prossimali delle zampe tendono ad avere delle lunghe fibre muscolari con tendini poco elastici; i muscoli distali invece, tendono ad avere delle fibre muscolari corte inclinate rispetto all’asse di azione (pennate) con un tendine lungo ed elastico. La massa muscolare delle gambe è concentrata di più prossimalmente per ridurre il costo dell’inerzia durante la locomozione. Il risultato di questa strutturazione è che i grandi muscoli prossimali sono la fonte del principale lavoro muscolare dove gli snelli muscoli distali sono più adatti a conservare e restituire l’energia elastica durante la deambulazione (Sawicki et al. 2009).
E’ emblematico di quanto detto, le prestazioni ottenute nella corsa veloce dall’atleta Sud- Africano Oscar Pistorius, utilizzando semplicemente due protesi in fibra di carbonio, che gli permettono di riutilizzare l’energia potenziale, al posto dei piedi e delle gambe (Weyand et al. 2009).
Da questa presentazione appare chiaro che i sistemi miofasciali e tendinei dei muscoli della caviglia sono più soggetti a stress tensionali passivi, dove quelli dell’anca a stress tensionali attivi.
Nella logica dell’utilizzo delle strutture muscolo-scheletriche corporee dobbiamo ricercare l’eziopatogensi delle patologie, ovviamente passando per la disfunzione. A livello prossimale, il lavoro muscolare attivo induce un’eccessiva rigidità dei muscoli dell’anca, quale gli ischiocrurali, aumentando selettivamente il carico elastico sulle strutture distali.
Della relazione funzionale tra caviglia e anca, possiamo prendere come esempio il lavoro di Mitchell et al. (2008), in cui viene dimostrato come l’ampiezza della dorsiflessione varia se viene effettuata con soggetto disteso supino con anca e ginocchio flessi a 90° (47.3°), anca e ginocchio distesi (38.8°) (fig. 5) e con ginocchio disteso e anca flessa a 90° (16.4°) (fig. 6).
Bibliografia
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