Sindromi da conflitto femoro acetabolare: il ruolo della caviglia
In un recente articolo abbiamo messo in evidenza come il nostro corpo sia in grado di trasmettere tensioni a distanza attraverso un network di tessuti costituito dalle catene miofasciali e come la mobilità (o l’ipomobilità) di un segmento possa condizionarne un altro a distanza. Ad esempio dai risultati pubblicati in un articolo di Grieve et al. del 2015 [1] sembra che sia possibile migliorare la prestazione del test sit-and-reach (e quindi migliorare la mobilità della catena posteriore) attraverso l’auto rilasciamento miofasciale della fascia plantare. In un altro studio Mitchell et al. [2] mettono in evidenza come il ROM della caviglia sia condizionato non solo dalla posizione del ginocchio, ma anche da quella dell’anca.
In un altro nostro articolo abbiamo visto degli esempi di come, attraverso alcuni esercizi aventi come scopo il miglioramento della mobilità a livello locale dell’anca, sia possibile fornire al paziente degli strumenti per l’autotrattamento nelle sindromi da conflitto femoro acetabolare e per il miglioramento funzionale della mobilità d’anca.
Sindromi da conflitto femoro acetabolare: il ruolo della caviglia
Le sindromi da conflitto femoro acetabolare (FAI) sono una condizione patologica che solo recentemente ha acquisito delle caratteristiche definite nonostante la loro conoscenza sia datata. Se si escludono i casi di deformazioni congenite, la restante parte delle degenerazioni dell’anca possono essere trattate ripristinando un corretto scarico delle forze all’interno dell’acetabolo, prevenendo o rallentando la degenerazione ossea e la formazione di osteofiti che secondariamente possono divenire una causa di ulteriore restrizione del movimento.
Spesso la disfunzione dell’anca può causare problematiche di LBP [5, 6, 7] o può scompensare le strutture a valle come il ginocchio e la caviglia.
Alcuni studi hanno indagato la mobilità dell’anca durante il cammino in soggetti con sindromi da conflitto. I risultati di questi studi hanno evidenziato delle limitazione nella mobilità dell’anca in intrarotazione [6] e nei movimenti sia sul piano sagittale che su quello frontale [6, 7, 8].
È stato inoltre osservato che in soggetti con sindromi da conflitto alcune disfunzioni biomeccaniche nel cammino persistevano anche successivamente al trattamento chirurgico [8]. È possibile quindi che alcune alterazioni biomeccaniche o tissutali di altre articolazioni o segmenti dell’arto inferiore possano giocare un ruolo cruciale non solo nella persistenza di anomalie del cammino ma anche nel contribuire a sviluppare la stessa sindrome da conflitto femoro acetabolare. A questo proposito le articolazioni tibiotarsica e subtalare sono di particolare interesse: esse infatti giocano un ruolo importante nell’ammortizzare la forza di gravità nella fase di decelerazione (quando il tallone prende contatto con il terreno e nelle fasi immediatamente successive del ciclo del passo) (fig. 1) e nella fase propulsiva quando, attraverso la reazione al suolo, si rende necessaria l’espressione dell’energia potenziale accumulata nella prima fase [9, 10].
In uno studio di Hetsroni et al. [11] gli autori, analizzando la cinematica del cammino in soggetti con sindromi da conflitto, evidenziano come in questi soggetti vi sia una diminuzione dell’intrarotazione femorale al momento dell’appoggio del tallone al suolo e come questo si traduca nella tendenza alla maggiore inversione del retropiede in questa fase del cammino.
Di conseguenza è possibile che si verifichi una minore eversione del piede in fase di pieno appoggio e dunque una minore capacità di ammortizzamento e di accumulo di energia potenziale elastica necessaria per la fase propulsiva del passo.
Normalmente infatti all’appoggio del tallone al suolo e ad una prima ma breve inversione del retropiede segue la fase di ammortizzamento che prevede una reazione a catena, dal basso verso l’alto, che comprende l’eversione del retropiede, la rotazione interna della tibia e del femore e il tilt pelvico anteriore [12, 13, 14] (fig. 2).
Una minore eversione del retropiede rappresenterebbe quindi un meccanismo protettivo che il soggetto mette in atto per ridurre l’intrarotazione femorale e l’antiversione pelvica, per limitare quindi l’impingement tra il collo del femore e l’acetabolo [15, 16]. Una minore eversione del retropiede e quindi una limitata capacità di assorbire gli shock, provoca di contro un incremento della trasmissione delle forze di reazione al suolo lungo tutto l’arto inferiore causando effetti deleteri sull’articolazione dell’anca [9]. È possibile inoltre che vi sia uno stress maggiore a carico del tibiale posteriore, che risulterà iperprogrammato per limitare il movimento di eversione nella fase di appoggio del piede a terra.
Date queste considerazioni sarebbe quindi auspicabile, per migliorare la sintomatologia del FAI, non solo trattare i tessuti a livello locale per migliorare la mobilità dell’anca ma, indirettamente, anche lavorare sulla mobilità della tibiotarsica e della sottoastragalica ricercando quindi un “effetto ascendente” in partenza dal piede per condizionare una migliore funzionalità dell’anca stessa.
In fase iniziale le sindromi da conflitto sono quasi asintomatiche e possono dare solo qualche sensazione di fastidio anteriore, soprattutto nei movimenti che richiedono flessione e intrarotazione femorale.
Un esercizio che sollecita questo meccanismo e può comportare quindi la comparsa dei sintomi è ad esempio lo squat. Sappiamo inoltre che per eseguire uno squat al parallelo è probabilmente più importante avere una buona mobilità della caviglia e dunque anche una buona elasticità dei muscoli profondi della loggia posteriore della gamba che avere una buona mobilità dell’intera catena posteriore.
Nel caso di una caviglia con un deficit di dorsiflessione, i compensi che più frequentemente potremmo osservare durante uno squat comprendono ad esempio una maggiore flessione del tronco e antiversione pelvica o una maggiore abduzione del femore, meccanismi questi che limitano ulteriormente la mobilità dell’anca portando ad un precoce impatto tra il collo del femore e il bordo dell’acetabolo.
Risulta quindi importante:
- fornire al paziente i mezzi per ristabilire una buona mobilità sia dell’anca che delle caviglia;
- inserire un programma di potenziamento mirato per i muscoli stabilizzatori dell’anca.
Nei video seguenti vediamo alcune proposte di auto-mobilizzazione della tibiotarsica e della sottoastragalica e delle tecniche di self myofascial release che hanno lo scopo di migliorare la flessione dorsale della caviglia con l’intento di ristabilire le corrette dinamiche di movimento del piede.
Bibliografia
- Grieve R, Goodwin F, Alfaki M. The immediate effect of bilateral self myofascial release on the plantar surface of the feet on hamstring and lumbar spine flexibility: a pilot randomised controlled trial. J Bodyw Mov Ther. 2015. 9, 544– 552
- Mitchell B, Bressel E, McNair P.J Effect of pelvic, hip, and knee position on ankle joint range of motion. Phys Ther Sport. 2008. 9, 202–208
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