Dolore cronico e predittori psicologici del trattamento terapeutico: l’integrazione possibile tra fisioterapia/osteopatia e psicologia
A cura di: Arianna Melis*, Sonya Sabbatino**
* Psicologa, Spine Center - Bologna ** Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale - Torino
Il dolore cronico è un fenomeno complesso, che si calcola interessi circa 100 milioni di persone solamente nel contesto europeo (Breivik et al., 2006)
Per le sue caratteristiche di persistenza nel tempo e pervasività, produce conseguenze di tipo psicologico ed emotivo che se non adeguatamente intercettate e prese in carico, possono esitare in peggioramenti del quadro algologico (Knaster et al., 2012) o in una riduzione dell’efficacia del trattamento riabilitativo fisico (Lamé, 2008).
Viceversa, un’individuazione precoce e una presa in carico efficace di alcuni aspetti psicologici e psicosociali, mostra dei vantaggi sia a livello di outcome dei trattamenti, sia a livello di mantenimento dei risultati.
Lo stato attuale: modello biomedico e dolore cronico
Le prassi attuali nei contesti di cura per il dolore cronico, appaiono ancora fortemente ancorate al modello biomedico. Questo tipo di approccio teorico e applicativo, quando declinato nell’ambito del dolore, ipotizza l’esistenza di una relazione lineare tra la manifestazione dolorosa e la presenza di una modificazione strutturale a livello fisico, trascurando quindi ogni tipo di esperienza dolorosa che sfugga a questa visione riduzionista (Bransfield e Friedman, 2019; Quintner et al., 2008).
D'altronde, la letteratura sulle terapie per il dolore, tende a concentrarsi maggiormente sui meccanismi fisiologici e sugli aspetti clinici della sua gestione (Sim e Smith, 2004), con un'attenzione meno esplicita alle determinanti psicosociali, e in particolare sociali, della salute.
I pazienti, spesso, descrivono alcune delle loro "barriere (psicosociali) al recupero" nella forma di cognizioni negative e sintomi comportamentali e fisici, tra cui: maggiore sensibilità al dolore, somatizzazione, aumentata percezione dei sintomi e scarsa partecipazione alla fisioterapia (Gatchel e Wright, 2002).
Nello specifico, un’analisi dei dati a disposizione, fa emergere tutte le criticità di questo approccio: in Europa, il 40% dei malati di dolore cronico dichiara di non essere soddisfatto delle cure ricevute (Breivik et al., 2006).
Nasce dunque l’esigenza di un approccio più efficace, in grado di valutare e affrontare, nel complesso, l’esperienza individuale del dolore.
Cambi di paradigma: verso una visione biopsicosociale del dolore L’approccio che, negli ultimi anni, sta guadagnando maggiori prove di efficacia, è il modello Biopsicosociale, concettualizzato per la prima volta dallo psichiatra statunitense George Engel (1977) e ripreso più recentemente da altri Autori (Gatchel et al., 2007; Hulla et al., 2019). Ulteriori evidenze rilevano una relazione diretta tra gli aspetti psicosociali e lo sviluppo di disabilità nel contesto di diverse condizioni muscolo-scheletriche (Pincus et al., 2002; Burton et al., 2004; Åsenlof e Soderlund, 2010). |
George Libman Engel (1913-1999) Professore di psichiatria e medicina per oltre 50 anni presso l’Università di Rochester (New York), nel 1977 richiamava, in un articolo apparso sulla rivista «Science», alla necessità di un nuovo modello medico (Engel, 1977). L’approccio biomedico, forte delle grandi scoperte e delle conseguenti innovazioni diagnostiche e terapeutiche del XX secolo, si stava concentrando sul corpo del paziente, lasciando volontariamente problemi e bisogni di tipo psicologico e sociale allo studio e alla cura di altre discipline. Engel, che era internista e psichiatra, annunciava «una crisi di tutta la medicina», a causa della «aderenza ad un modello centrato sulla malattia che non è più adeguato ai compiti scientifici ed alle responsabilità sociali sia della medicina che della psichiatria». |
Sotto l’aspetto operativo, questo cambio di paradigma comporta un’intersezione del fisioterapia/osteopatia con la psicologia, che si esplica in due modalità: da un lato la “presa in prestito” da parte della fisioterapia/osteopatia, di strumenti propri della psicologia (Penney, 2010; Synnott et al., 2016; Zangoni e Thomson 2017; Montesinos et al., 2021 ); dall’altro, l’adozione di un approccio di intervento interdisciplinare, nel quale lavoro e competenze del fisioterapista e dello psicologo si intrecciano e agiscono in sinergia.
La revisione della definizione di dolore, rilasciata nel Luglio del 2020 dalla IASP (International Association for Study of Pain), chiarifica ulteriormente questo concetto. Nella nuova definizione il dolore viene riconosciuto come esperienza spiacevole sia dal punto di vista sensoriale che emozionale, associata a un danno tissutale reale o potenziale o che comunque presenta elementi di somiglianza con una situazione di danno tissutale. (IASP, 2020)
Vengono inoltre esplicitati alcuni punti cardine: il dolore come esperienza personale è influenzata in diversa misura da fattori biologici, psicologici e sociali; la compromissione che il dolore porta sul versante del benessere psicologico e sociale; la non riconducibilità dell’esperienza dolorifica alla semplice nocicezione e l’impossibilità di inferire la presenza di dolore esclusivamente sulla base dell’attività presente a livello neuronale.
Un approccio alla terapia riabilitativa del dolore che non consideri gli aspetti psicologici e psicosociali dello stesso, sarà quindi destinato a esplicare solamente una parte del potenziale terapeutico che potrebbe elargire.
La valutazione del dolore basta sul modello biopsicosociale
Una valutazione approfondita, basata sul modello, consente ai professionisti di spiegare i fattori perpetuanti della condizione e di pianificare un programma di intervento individualizzato.
La ricerca ha contribuito a individuare le componenti base di un assessment clinico biopsicosociale per la gestione dei pazienti con dolore cronico afferenti alla fisioterapia e/o osteopatia, al fine di comprendere e spiegare i meccanismi caratterizzanti il dolore e i fattori psicosociali che possono condizionarlo.
Il modello PSCEBSM (Pain – Somatic and medical factors – Cognitive factors – Emotional factors – Behavioral factors – Social factors – Motivation) (Wijma et al., 2016) fornisce una guida pratica per acquisire dati biopsicosociali utili a ottenere un quadro complessivo della condizione.
● PAIN - In primo luogo, il professionista procede con una valutazione del tipo di dolore presentato dal paziente (P) allo scopo di classificarlo e individuarne i meccanismi.
● SOMATIC AND MEDICAL FACTORS - Un attento esame fisico (S) è parte importante dell’intervento allo scopo di valutare la qualità del movimento, i fattori che mantengono il dolore e l’eventuale presenza di una chinesofobia.
● COGNITION/PERCEPTION – Le aspettative del paziente rispetto a intervento e prognosi; la comprensione della propria condizione e delle strategie a disposizione per affrontare la situazione; il significato emotivo del proprio dolore (C) - influiscono sui fattori emotivi e comportamentali come anche sulla sensibilità biologica al dolore. Per questa ragione viene indicato di valutare tali fattori attraverso il colloquio e/o mediante la somministrazione di questionari come: la Brief Illness Perception Questionnaire (Brief IPQ) e la Pain Catastrophizing Scale (PCS).
● FATTORI EMOTIVI – È importante informarsi sulla presenza di paure legate a movimenti specifici, comportamenti di evitamento, la valenza traumatica del dolore, problematiche di tipo psicologico in ambito lavorativo, familiare, economico, sociale (E) ecc. È inoltre suggerito l’utilizzo di alcune scale di valutazione quali: lo State-Trait Anxiety Inventory (STAI); il Tampa-Scale of Kinesiophobia (TSK) e il Fear Avoidence Belief Questionare; l’Injustice Experience Questionnaire (IEQ); il Patient Health Questionnaire-2 (PHQ-2), o il Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9), o il Center of Epidemiologic Studies Depression Scale (CES-D).
● FATTORI COMPORTAMENTALI – I comportamenti di evitamento conseguenti alla presenza di paure, possono portare alla progressiva diminuzione del movimento fino alla completa inattività. È quindi importante valutare il comportamento (B) come anche gli “aggiustamenti” messi in atto dal paziente a causa della presenza di dolore
● FATTORI SOCIALI – I fattori sociali e ambientali (S) possono risultare protettivi o meno, influenzando positivamente o negativamente la salute del paziente. È quindi importante valutare: l’ambiente sociale, lavorativo, familiare, le condizioni di vita e gli eventuali interventi precedenti.
● MOTIVAZIONE – Valutare la motivazione e il desiderio di cambiare (M) è fondamentale se si desidera aiutare il paziente a modificare le convinzioni relative alle relazioni tra dolore-chinesofobia, dolore-disabilità, e accettazione-catastrofismo. A tale scopo potrebbe risultare utile la scala: Psychology Inflexibility in Pain Scale (PIPS).
Per quanto riguarda il lavoro di valutazione pre-trattamento, in letteratura emerge come alcuni aspetti psicologici possano risultare utili nel predire il risultato del trattamento fisico, inteso in termini di dolore residuo alla fine del trattamento e di livelli di disabilità.
I costrutti finora individuati come maggiormente predittivi dell’outcome del trattamento fisico e riabilitativo sono: livello di depressione pre-trattamento, fear-avoidance e catastrofizzazione (Lamé, 2008).
La depressione è una delle condizioni mentali più comuni nelle persone che soffrono di dolore cronico (Rayner et al., 2016). Spesso contribuisce a rendere più severo il quadro clinico individuale (Arnow et al., 2006) e può costituire un ostacolo al trattamento.
Quanto più il dolore arriva a limitare il funzionamento e l’autonomia individuale, tanto più è probabile sviluppare una condizione depressiva. Poiché, spesso, non viene valutato un potenziale quadro depressivo nelle persone con dolore cronico, il problema risulta essere sottostimato e non adeguatamente trattato.
In ambito medico, l’accento posto sulle variabili sintomatologiche connesse al dolore, rischia di trascurare i vissuti depressivi che, di conseguenza, possono peggiorare.
Il conseguente sviluppo di disturbi del sonno, perdita di appetito, mancanza di energia e diminuzione dell'attività fisica, alimenta la condizione dolorosa.
Il termine fear-avoidance (Asmundson et al, 1999; Vlaeyen et al. 2000) fa riferimento a un modello descrittivo dello sviluppo del dolore muscoloscheletrico cronico. Il modello teorizza l’esistenza di un legame tra l’insorgenza dell’esperienza dolorifica cronica e comportamenti di tipo evitante legati alla paura del dolore. In particolare, il costrutto colloca a monte del processo un’esperienza dolorosa vissuta dalla persona in concomitanza con un evento di tipo traumatico per l’organismo. A seguito di un simile vissuto è possibile che si instaurino valutazioni negative relative al dolore e alle sue possibili conseguenze, valutazioni che possono condurre gradualmente la persona a un pattern di evitamento di attività sempre più esteso e a uno stato di ipervigilanza verso le sensazioni corporee. Il risultato è una riduzione progressiva del movimento, compreso quello necessario al processo di trattamento fisico.
La catastrofizzazione, costrutto peraltro incluso nel modello Fear-Avoidance, è un concetto teorizzato da Albert Ellis (1957) e ripreso successivamente da Aaron Beck (1972), due fra i maggiori esponenti della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale. Si tratta di una distorsione cognitiva che consiste nella tendenza individuale a esagerare le conseguenze negative degli eventi o delle decisioni (APA Dictionary of Psychology). La tendenza alla catastrofizzazione nell’ambito del dolore, acuto o cronico, potrebbe assumere la forma di pensieri relativi alle possibili conseguenze, ipotizzate come estremamente negative, di un movimento o di un’attività, con un concomitante innalzamento dei livelli di ansia e una conseguente risposta di evitamento nei confronti della situazione oggetto di catastrofizzazione (Wertly et al., 2014).
Depressione, fear avoidance e catastrofizzazione, si configurano come i predittori più consistenti di un outcome negativo per quanto riguarda l’intensità del dolore esperita a conclusione della terapia manuale, fisica e riabilitativa (Lamé, 2008; Van Wijk et al., 2008). La depressione appare inoltre essere un forte predittore del livello di disabilità a fine trattamento (Ericsson et al., 2002).
L’utilità del modello biopsicosociale nella pratica clinica
Alla luce delle considerazioni fatte, diventa evidente come l’incontro tra terapia riabilitativa e psicologia manifesti il proprio potenziale benefico in ogni fase del trattamento, permettendo di ottenere risultati migliori non solo a livello di outcome fisici, ma in generale della qualità di vita (Martin et al., 2012).
Fattori psicologici e psicosociali rivestono ruoli cardine in diversi momenti e livelli dell'esperienza dolorosa: componenti inerenti la sfera psicologica e psicosociale sono rintracciabili nell'esordio, nel mantenimento e nella cronicizzazione della sintomatologia dolorosa (Hasenbring et al., 2001; Knaster et al., 2012); aspetti psicologici legati al vissuto del dolore possono porsi come impedimenti nel lavoro riabilitativo fisico. Al contrario, valutazione e presa in carico di questi aspetti fin da subito, permetterebbero di considerare in maniera omnicomprensiva le necessità del paziente, di lavorare sulla motivazione al cambiamento nello stile di vita e sulla compliance al trattamento fisico (McGrave et al., 2014; Koltuniuk e Rosinczuk, 2021).
L’approccio interdisciplinare ha un ruolo chiave anche nella percezione dell’esperienza di cura da parte del paziente e nella relazione con il professionista di riferimento (Hall et al., 2010). Trascurare le componenti psicologiche, indebolisce il trattamento e nasconde al professionista aspetti importanti del paziente, e può tradursi in una possibile perdita di fiducia nei confronti del curante e del trattamento fisico in generale. Tale esperienza, se ripetuta, può condurre il paziente a sviluppare una forma di “impotenza appresa” (Seligman, 1967) nei confronti della propria condizione, con conseguente rinuncia verso altri tentativi di cura (Samwel et al., 2006).
Alla luce delle considerazioni fatte, diventa evidente come l’incontro tra terapia riabilitativa e psicologia manifesti il proprio potenziale benefico in ogni fase del trattamento, permettendo di ottenere risultati migliori non solo a livello di outcome fisici, ma in generale della qualità di vita (Martin et al., 2012).
Fattori psicologici e psicosociali rivestono ruoli cardine in diversi momenti e livelli dell'esperienza dolorosa: componenti inerenti la sfera psicologica e psicosociale sono rintracciabili nell'esordio, nel mantenimento e nella cronicizzazione della sintomatologia dolorosa (Hasenbring et al., 2001; Knaster et al., 2012); aspetti psicologici legati al vissuto del dolore possono porsi come impedimenti nel lavoro riabilitativo fisico. Al contrario, valutazione e presa in carico di questi aspetti fin da subito, permetterebbero di considerare in maniera omnicomprensiva le necessità del paziente, di lavorare sulla motivazione al cambiamento nello stile di vita e sulla compliance al trattamento fisico (McGrave et al., 2014; Koltuniuk e Rosinczuk, 2021).
Un’ulteriore valutazione può essere fatta sull’aspetto economico delle cure. Un approccio che opera in maniera olistica, si concretizza in un trattamento maggiormente mirato e potenzialmente più efficace, riducendo peregrinazioni alla ricerca di una cura che sembra impossibile da trovare e diminuendo quindi l’impatto economico del singolo utente sul Servizio Sanitario Nazionale (Stewart, 1995).
Ultimi ma non per importanza, vanno vagliati gli effetti negativi che una presa in carico esclusivamente biomedica può avere sull’esperienza del professionista della riabilitazione (Danilov, et al., 2020).
È appurato che a fronte di una valutazione unidimensionale, che non riscontra condizioni organiche alla base della malattia dolore, il personale sanitario possa sperimentare vissuti di rifiuto nei confronti del paziente. Questo atteggiamento, per le sue peculiarità, si pone inevitabilmente come anti-terapeutico e rischia di minare l’effetto benefico di una terapia fisica correttamente condotta ed altrimenti efficace. Il rischio è un senso di frustrazione sia da parte del professionista, che percepisce il paziente come “difficile”, che da parte del paziente, il quale potrebbe valutare l’esperienza di cura come insoddisfacente e non utile e il professionista come non capace o “non umano”.
A riprova dell’importanza di un approccio empatico nei confronti della sofferenza del paziente, si riscontra come una modalità di interazione calorosa e accogliente, sia in grado di velocizzare i tempi di guarigione, anche in ambito post-chirurgico (Stewart, 1995).
L’approccio Cognitivo Comportamentale al dolore cronico
La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale si impone attualmente come gold standard fra gli interventi psicologici nel dolore cronico (Ehde et al., 2014). Si tratta di una forma di trattamento psicoterapico evidence based, con efficacia pari o addirittura superiore ad altre forme di terapie psicologiche e di alcuni trattamenti psicofarmacologici (Beck, 2001)
Colonna portante dell’approccio è l’individuazione dei fattori che predispongono lo sviluppo di problemi psicologici, i pattern di pensiero e di comportamento che li mantengono e il vissuto emotivo.
Qualora la problematica portata dalla persona non fosse passibile di modificazioni (come nel caso del dolore cronico), l’impegno terapeutico si rivolge anche all’apprendimento e alla costruzione di strategie di coping che permettano alla persona di affrontare le difficoltà in maniera più funzionale, riducendo l’impatto che queste hanno nella vita quotidiana.
Tra gli approcci propri della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale maggiormente efficaci per la gestione del dolore cronico, emergono la Mindfulness e l’Acceptance and Commitment Therapy.
La Mindfulness, forte di 40 anni di evidenza scientifica, si pone come pratica di attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante, rivolta al momento presente e quindi all’insieme di vissuti fisici e psicologici che nel momento presente hanno luogo.
Le origini risalgono all’induismo e al buddhismo e il suo approdo al mondo occidentale, nonché la sua integrazione con la scienza, si realizzano intorno agli anni ‘80 grazie dal lavoro del biologo e professore emerito di Medicina Jon Kabat-Zinn (1982).
La volontà di Kabat-Zinn di rendere scientificamente dimostrata e sistematizzata la Mindfulness trova compimento in diversi tipi di protocolli terapeutici basati su di essa. Il più conosciuto, nato per la gestione del dolore cronico e successivamente esteso ad altre problematiche di tipo psicologico e fisico, è il protocollo MBSR - Mindfulness Based Stress Reduction (Kabat-Zinn et al.,1992).
Il principio alla base del funzionamento è che attraverso la pratica sia possibile incrementare consapevolezza e accettazione delle proprie esperienze interne, compreso il dolore, scindendole dai correlati cognitivi ed emozionali che normalmente le accompagnano e che possono rivelarsi disfunzionali. Il risultato è una riduzione del livello di sofferenza della persona.
La Transformative Mindfulness consiste in una serie di metodi finalizzati a modificare la risposta ai problemi. Si muove verso l’accettazione del dolore, che viene osservato ed espresso sotto forma di parole e metafore.
Dal punto di vista funzionale, la pratica regolare esplica la sua efficacia nel dolore cronico modificando i pattern di attivazione cerebrale nelle aree del cervello coinvolte nella percezione del dolore. In particolare, si rilevano differenze di attivazione nelle aree associate alla modulazione dell’esperienza nocicettiva (Orme-Johnson et al.,2006; Zeidan et al., 2015; Zeidan et al., 2016).
La Mindfulness e il concetto di accettazione dell’esperienza, trovano ampio spazio in un altro approccio Cognitivo Comportamentale, noto con l’acronimo di ACT - Acceptance and Commitment Therapy. L’ACT si inserisce nella cosiddetta terza onda della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, teorizzata da Hayes nel 2004.
Dimostrata efficace per numerose problematiche di tipo psicologico, viene attualmente indicata dall’American Psychological Association come uno degli approcci psicoterapici più efficaci per la presa in carico delle condizioni croniche dolorose.
Uno dei concetti chiave dell’ACT, utile alla comprensione e alla gestione del dolore cronico, è quello di evitamento esperienziale, inteso come tendenza a evitare il contatto con un vasto range di eventi interni sgradevoli: pensieri, sentimenti, ricordi e sensazioni fisiche.
Gli studi mostrano come questo tentativo di liberarsi dei contenuti scomodi dell’esistenza umana, ottenga paradossalmente il risultato contrario, ossia un aumento della sofferenza.
Declinando questo concetto al dolore cronico, gli studi hanno dimostrato che quanto più la persona orienta i propri sforzi verso l’evitamento di pensieri, emozioni e sensazioni dolorose che caratterizzano il vissuto del dolore, tanto più si produce un aumento della sofferenza.
Viceversa, vi è evidenza di come la disponibilità a entrare in contatto con i vissuti sgradevoli che accompagnano la condizione di dolore, senza il tentativo di controllarli, si traduca in una diminuzione dei livelli di depressione, ansia e stress.
L’ACT si avvale di strategie orientate all’accettazione della condizione dolorosa cronica e al reindirizzamento delle energie e dell’impegno della persona verso la costruzione di una vita ricca e significativa, in linea con i propri valori e obiettivi.
Integra al suo interno la Mindfulness e le tecniche cognitivo comportamentali di prima e seconda onda, offrendo al clinico uno strumentario ampio e scientificamente validato. Negli ultimi tempi sta diventando parte integrante del lavoro fisioterapico.
Ipnosi e dolore
Già nella prima metà dell’800, precedentemente all’introduzione del cloroformio e all’invenzione della moderna anestesiologia, l’ipnosi era stata largamente impiegata come unico anestetico in chirurgia generale. C'è un corpus consistente di ricerche che testimoniano l'efficacia dell'ipnosi per la riduzione del dolore, sia acuto che cronico.
Dal 1994 la IASP (International Association for the Study of Pain) ha incluso l'ipnosi nel curriculum dei professionisti che si occupano di terapia del dolore in America. Nel 1996 il Panel Report del National Institute of Health ha definito l'ipnosi come uno strumento affidabile, efficace per alleviare il dolore da cancro e altre condizioni di dolore cronico.
Il dolore si può presentare con aspetti, modalità e significati differenti. Si ha il ricordo del dolore, si sperimenta il dolore nell'immediato, si immagina come sarà nel futuro. Il dolore ha quindi un'estensione temporale, che crea aspettative negative e può variare per qualità o intensità.
La componente motivazionale/affettiva si manifesta con ansia, frustrazione sensi di colpa, terrore profondo nella certezza che il dolore non cesserà nell'immediato e continuerà a manifestarsi
(Di solito) Ci si rivolge all'ipnosi, come ultima risorsa, quando non si sono trovate soluzioni "scientifiche", "mediche", "alternative". L'ipnosi non è una cura: non guarisce. Può dissolvere il dolore, renderlo meno tormentoso, trasformarlo in qualcosa di tollerabile; agisce sulla percezione del dolore e non sulle cause. L’ipnosi può essere utilizzata sia per ridurre l’intensità del dolore, sia per cambiare l’esperienza del dolore in alcuni individui, favorendo l’accettazione, piuttosto che il cambiamento della propria esperienza.
Sia l'anestesia ipnotica che l'analgesia, sono due trattamenti utili per il dolore, perché impediscono al soggetto di provare sensazioni dolorose o di ridurne l’intensità.
Alcuni, riescono a realizzare analgesia e anestesia in autoipnosi, su parti del corpo o sull'intero corpo. I risultati variano in funzione di caratteristiche individuali e dell'addestramento.
È merito dei coniugi Hilgard (Hilgard & Hilgard, 1975), la dimostrazione di una correlazione diretta fra il grado d'ipnotizzabilità e il livello d'analgesia raggiungibile. I ricercatori hanno inoltre dimostrato che l'effetto analgesico dell'ipnosi è specifico e non riconducibile all'effetto placebo, alla paura o alla suggestione.
Dagli studi effettuati emerge che anche quando il trattamento non provoca un significativo sollievo dal dolore, esso porta comunque qualche beneficio, come il miglioramento del sonno, un maggiore senso di calma generale e di benessere, o di riduzione dello stress.
Le principali indicazioni cliniche riguardano:
a) cefalee croniche primarie (e.g., cefalea di tipo tensivo ed emicrania);
b) algie orofacciali (e.g., sindrome dell’articolazione temporo-mandibolare, bruxismo);
c) algie muscolo-scheletriche distrettuali (e.g., miofasciali) o diffuse (e.g., fibromialgia);
d) mal di schiena (low back pain) aspecifico;
e) dolore neuropatico (e.g., arto fantasma doloroso);
f) dolore oncologico (terapia palliativa in grado di controllare anche altri sintomi, quali nausea, depressione);
g) dolori viscerali e urogenitali;
h) dolore «psicogeno».
Conclusioni
Alla luce delle considerazioni fatte finora e dell’evidenza scientifica attualmente a disposizione, è possibile affermare che la valutazione e la presa in carico degli aspetti psicologici nel lavoro di riabilitazione fisica per il dolore cronico, sia un'operazione proficua sotto ogni aspetto.
I risultati ottenibili dall’unione della Fisioterapia, Osteopatia e Psicoterapia Cognitivo Comportamentale offrono la prova inequivocabile del fatto che il lavoro congiunto di riabilitazione osteo-muscolare e terapia psicologica sia una strada percorribile, con potenziali vantaggi per tutti i soggetti coinvolti nel processo di cura, dai pazienti ai professionisti.
Si auspica quindi che la prassi interdisciplinare possa in futuro affermarsi come trattamento standard per la presa in carico del paziente con dolore cronico.
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